Ci preme sottolineare ancora una volta come in seguito alla comparsa di afasia la persona debba sperimentare la perdita di una delle capacità umane che più lo caratterizzano: in misura più o meno grave, a seconda di una serie di fattori tra cui l’entità del danno cerebrale e della sua specifica localizzazione, la persona afasica sperimenterà la difficoltà a comprendere gli altri e a farsi comprendere in modo adeguato e, in conseguenza, vedrà ridotte le sue capacità di svolgere un ruolo attivo all’interno del suo mondo sociale.
Il periodo successivo all’evento, dai primi giorni dopo la comparsa dei sintomi in poi, è normalmente caratterizzato da un susseguirsi di sentimenti diversi e talvolta contrastanti che seguono il percorso riabilitativo della persona e che possono facilitarlo o al contrario rappresentare un’importante barriera al raggiungimento dell’obiettivo finale. Se in un primo momento è facile immaginare come i sentimenti prevalenti siano la paura per quanto accaduto e l’ansia di sapere cosa succederà dopo, nei mesi successivi potranno comparire anche la felicità per i risultati ottenuti e la speranza di poter “tornare come prima”; tuttavia, dal momento che raramente è possibile una restituito ad integrum, il percorso riabilitativo è necessariamente accompagnato ad un percorso emotivo di elaborazione dell’accaduto e di progressiva elaborazione del lutto per le perdite, più o meno grandi, subite (Parr et al, 1998).
Il percorso riabilitativo della persona con afasia tuttavia non interessa unicamente la persona coinvolta perché l’afasia coinvolge sempre l’intero nucleo famigliare; in conseguenza non conteranno solo i sentimenti e l’elaborazione del paziente, ma anche il percorso emotivo che sarà in grado di fare chi si trova al suo fianco. L’importanza dei famigliari è testimoniata anche dal fatto che la pratica clinica dell’afasia ha mostrato come il recupero socio-comunicativo di un paziente afasico sia influenzato non solo dal quadro patologico del singolo paziente, ma anche dal contesto famigliare e sociale in cui si troverà a vivere dopo l’evento che ha portato all’afasia (Muò et al, 2005).
Dal momento che l’afasia non determina la morte della persona, la persona afasica ed i suoi famigliari dovranno imparare a convivere, spesso anche per molti anni, con la frustrazione che tale condizione determina e con le difficoltà che potranno esserne conseguenza quali una modificazione del proprio ruolo sociale, della propria attività lavorativa e del tempo libero e spesso uno stravolgimento delle relazioni interpersonali (Marshall, 2002). In seguito all’ictus tutti i soggetti coinvolti, il paziente in primis, ma anche la sua famiglia, dovranno progressivamente acquisire il coraggio di essere competenti, cioè dovranno riuscire a mettersi in gioco nonostante i deficit comunicativi propri o del proprio congiunto, per partecipare attivamente o permettere una partecipazione attiva alle attività della vita quotidiana nel modo più esteso possibile, eventualmente anche con l’ausilio di strategie di compenso e modalità aumentative e/o alternative di comunicazione (Ibidem).
Parlare di approccio sociale all’afasia significa porsi come obbiettivo la qualità di vita della persona afasica, intendendo la persona nella sua globalità bio-psico-sociale e la qualità di vita come espressa sia in termini di benessere psicologico che di possibilità di inclusione sociale.
L’approccio sociale all’afasia è esplicitamente progettato per migliorare sia la comunicazione, che la partecipazione attiva della persona e il benessere personale in tutti i momenti del percorso clinico riabilitativo. Aura Kagan parla di Life Participation Approach to Aphasia (LPAA) per indicare una “filosofia sociale” di approccio che guida l’intervento, la valutazione e la ricerca, e che mette al centro la partecipazione attiva della persona. La persona afasica è inserita in un contesto sanitario, familiare, comunitario e sociale in inter-azione con lei dall’inizio alla fine del percorso riabilitativo ed in grado di coinvolgerla attivamente nelle attività svolte (Simmons-Mackie e Kagan, 2007). Pertanto compito degli operatori non è solo quello di cercare di capire quali parti del cervello abbiano subito un danno o quali funzioni cognitive siano state interessate, ma cercare di indagare da subito anche come la persona ha compreso e sente ciò che gli sta accadendo. Il modello organicistico basato sulla rigida sequenza diagnosi – prognosi – trattamento rappresenta un riduzionismo ontologico, poiché la persona non è solo un organismo con patologia, quanto piuttosto un’ unità le cui parti avrebbero poco senso se trattate isolatamente ed in modo impermeabile.
Per poter attuare un approccio di tipo sociale all’afasia è indispensabile riuscire ad abbandonare la nostra visione dell’afasia nell’unico senso di perdita della capacità comunicativa (o peggio ancora linguistica) e porre invece l’accento su ciò che ancora è presente, su ciò che la persona afasica è ed è ancora in grado di fare in modo autonomo oppure valutare quali facilitazioni possono essere utili per incrementare le sue abilità (Kagan et al, 2001), ma soprattutto la sua possibilità di sentirsi coinvolta nelle attività che svolge. Alcuni studi infatti sottolineano come, per le persone afasiche, il numero e le caratteristiche delle attività condotte non siano così importanti quanto il sentirsi veramente coinvolti in queste attività; la persona con afasia spesso si sente isolata, mentre vorrebbe sentirsi rispettata e coinvolta e vorrebbe poter contribuire comunque all’interno della comunità, anche quando non può riprendere il lavoro precedente (Dalemans et al, 2009).
Ad oggi conosciamo molto poco di come le persone con afasia percepiscono la loro partecipazione sociale ed i fattori che possono influenzarla (Ibidem), tuttavia recenti ricerche in tal senso che hanno visto coinvolte le persone afasiche, hanno sottolineato come per poter vivere una vita di successo con l’afasia siano necessari principalmente tre elementi: il supporto sociale (fattore definito critico per vivere con successo), la capacità di adattarsi alla nuova percezione di sé per poter guardare al futuro e porsi nuovi obiettivi e il farsi carico dei propri continui miglioramenti comunicativi (Hinckley, 2006). La necessità di una maggiore partecipazione alle attività di vita quotidiana è bene espressa dalle parole che gli afasici utilizzano per esprimere ciò che noi chiamiamo partecipazione sociale: inserimento, coinvolgimento e senso di appartenenza (engagment, involvment, having a feeling of belonging). Non ultima l’importanza delle relazioni amicali che spesso vengono ridotte proprio a causa delle difficoltà di ordine comunicativo, ma che rappresentano il cuore della partecipazione sociale, della qualità della vita e benessere emotivo a maggior ragione quanto più la persona coinvolta è anziana (Davidson et al, 2008; Natterlund, 2009).
La riabilitazione nella fase degli esiti pertanto non può che essere inevitabilmente intrecciata ad un inserimento sociale ed il ritorno a vivere una vita piena con l’afasia (living successfully with aphasia) dovrebbe rappresentare per la persona afasica l’obiettivo riabilitativo finale. Abbiamo voluto utilizzare il termine di “inserimento” sociale anziché di “reinserimento” sociale proprio perché a tale termine si rischia spesso di associare l’idea che l’inserimento sia l’obbiettivo finale a cui tendere, dopo però tutta un’altra serie di interventi; il termine “re-inserimento” rischia etimologicamente di portare con sé un certo meccanicismo ben lungi dal rappresentare la sua reale complessità e dinamicità; pensando al nostro lavoro con gli afasici ci sembra ancora più appropriato parlare di “facilitare la partecipazione sociale” mirata all’inclusione sociale. Facilitare l’inclusione sociale della persona non è dunque un elemento che bisogna pensare a partire dalla fase degli esiti. Si facilita l’inclusione sociale anche a partire dalla fase acuta della malattia a seconda del tipo di processo riabilitativo che si instaura con la persona.
Per poter attuare tale progetto, il nostro lavoro con le persone afasiche ha voluto integrare strumenti di intervento distinti, lavorando in clima di continuità terapeutica e finalizzato alla qualità di vita della persona.
R. Muò , S. Monte, G. Barilari , M. Di Pietro
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